Sono sempre stata cicciottella, fin da piccola, e di buon appetito, amante della buona tavola. Ma osservando le foto si vede una bambina solare, sorridente, spensierata. Ma non magra, ed ahimè, fin da subito questo divenne un problema: nella mia famiglia il culto del magro era un punto cardine, un crisma, un diktat. Frasi tipo: “Stai attenta che se mangi troppo ed ingrassi poi ti prenderanno in giro”, oppure “Te lo dico per il tuo bene, basta mangiare, devi trovare marito poi!” o ancora “L’immagine è importante nella società di oggi, anche per trovare lavoro!” me le sono sentite ripetere milioni di volte, come se tutto fosse subordinato al fatto di essere magra, snella, in forma: amore, lavoro, amicizie. Tutto. Io invece magra non lo sono mai stata, perché non lo ero di natura… e questo fatto divenne presto un problema. Non c’erano solo frasi esplicite, ma anche sguardi di fuoco e battute al vetriolo, dette sempre per scherzare, o al limite a fin di bene… ma io le sentivo offensive sulla mia pelle. Soprattutto mio padre era letteralmente ossessionato dalla forma fisica: anche lui magro non lo era mai stato, ed aveva reso mio un problema suo, aveva trasferito su di me la sua fissazione.
Capii ben presto che, nella mia famiglia, il cibo non rappresentava solo mero nutrimento, ma merce di scambio, di ricatto morale, di pressioni psicologiche. Il cibo era tutto, tutto passava attraverso il cibo: il valore personale, l’autostima, l’apprezzabilità come persona e come donna. Se avessi voluto essere apprezzata, ma anche solo se avessi voluto sopravvivere tranquillamente, dovevo essere magra, non c’era altra via di uscita, non avevo alternativa. Provai a digiunare, a controllare molto strettamente ciò che mangiavo, ma non vi riuscì per molto tempo, anche se la sensazione che ne derivava era adrenalinica a dir poco, mi faceva sentire onnipotente visto che ero in grado di controllare un bene primario come il cibo.
E poi potevo esibire a mio padre, cicciottello, ossessionato dalla linea, ed insopportabile con me figlia, la mia magrezza: mettergli di fronte le mie ossa, il mio corpo consumato, era una sorta di tacita e silente vittoria, uno sbandierare la mia superiorità.
Era come se, in silenzio, gli dicessi: “Hai visto, sono stata più brava di te, ora non hai nulla per cui disprezzarmi o criticarmi”.
Si, mi sentivo disprezzata, non riconosciuta, non amata. Essere pelle ed ossa mi faceva stare bene, mi rendeva orgogliosa. Poco importa se poco dopo persi il ciclo, se il ginecologo mi disse che così avrei potuto rischiare l’infertilità… a me non interessava, dovevo essere magra e basta. Ricordo che, quando mi sentivo insicura o ansiosa per qualsiasi cosa, mi toccavo le ossa delle scapole, e questo gesto era in grado di tranquillizzarmi, mi restituiva la sicurezza, il senso di adeguatezza e di fiducia in me stessa. Tuttavia, ressi poco… non so spiegare perché, neanche oggi. Dopo circa 4 anni l’appetito e la voracità si impossessarono di me, ed io non fui in grado di contrastarle in alcun modo. Si impossessò di me un implacabile senso di vuoto, un vuoto profondo, dell’anima. E cominciai a mangiare… molto, troppo. Sentivo però che non era una fame normale diciamo così, una fame fisica: era una fame che veniva da dentro, dal profondo di me. E si impossessava di me non per reale fame fisica, non era necessità di cibo. Lo percepivo, ma non riuscivo a fermarmi in alcun modo. Ripresi brevemente tutti i kg persi e con gli interessi… ma anche quel corpo rubicondo era uno schiaffo a mio padre, era un dirgli silentemente “Non mi interessa ciò che pensi di me… devi amarmi comunque anche con i kg in più, perché sono tua figlia”. O magra o in sovrappeso ciò che contava era vendicarmi, scaricare su di lui la mia rabbia; usavo il mio corpo come uno strumento per colpirlo, era come dargli uno schiaffo senza alzare le mani. Sentivo di dover mangiare per riempirmi, per placare il vuoto, per sentirmi amata, accettata comunque. Non era fame di cibo, ma di amore. Esatto, era fame di amore. Mangiare non mi faceva sentire sola: il cibo era una coccola sempre disponibile, una gratificazione immediata, un amico sempre presente che dà e non chiede niente in cambio. Il problema è che c’era veramente un filo sottilissimo che separava l’essermi amico dal diventarmi nemico, tra l’amore dall’odio per il cibo.
E quel confine io non ho mai imparato a gestirlo, ma neanche a riconoscerlo.
Mangiavo troppo quando avevo gli attacchi di fame nervosa, e spesso finivo per sentirmi gonfia invece che sazia, scontenta ed abbattuta invece che felice ed appagata, triste e sola invece che amata e coccolata come speravo.
Nei miei attacchi di fame nervosa mangiavo tanto, troppo… di qualsiasi cosa, anche se preferivo focacce e pizze. Non ho mai vomitato, non era per me… mangiavo troppo e basta… a volte poteva succedere 2-3 giorni consecutivamente, altre 1 ogni 10-15 giorni. Dipendeva dalla fame che avevano le mie emozioni, la parte di me fragile ed indifesa, quella bambina cicciottella ma serena che il padre aveva rifiutato. Era lei, fragile ed insicura, che mi spingeva a mangiare troppo a volte.
E spesso, troppo spesso mi sentivo gonfia, triste e sola… anche se il cibo mi ottundeva, li per lì non mi faceva pensare, e mi aiutava a gestire le emozioni negative, almeno così mi sembrava, perché c’era sempre senza chiedere nulla in cambio. Con mio padre era tutto così doloroso: dimostrare, controllare, gestire… e poi fallire, si fallire, tanto il finale era sempre “Puoi fare meglio”, o qualcosa di simile. Mangiavo per colmare la mia solitudine, perché preferivo rinunciare alla relazione in quel momento, tutto troppo difficile, troppo complesso, troppo rischioso e doloroso. Meglio mangiare, non mi fa sentire sola. Ecco che il cibo era andato oltre il nutrimento ormai, perché la solitudine non c’entra nulla con il cibo, ma appartiene all’ambito dei vissuti emotivi, affettivi e relazionali. Scegliere di mangiare in quel momento voleva dire per me avere ormai rinunciato alla relazione. Mi permetteva di non sentirmi sola… ero terrorizzata dall’abbandono, infatti mangiavo anche per evitare di attrarre uomini, come ho capito in seguito: terrorizzata perché mio padre mi aveva abbandonato ancor prima di conoscermi, non mi aveva mai apprezzato e per questo lo detestavo, lo disprezzavo come lui aveva disprezzato me. Sentivo una rabbia dirompente, pericolosa, distruttiva: il cibo mi serviva per tapparla, un tappo che copre il vuoto e reprime la rabbia. E riusciva davvero a fare tutto questo? Si, ci riusciva, e ci riusciva talmente bene che divenni dipendente da lui, che ormai era troppo più potente di me. Alla fine, era lui che controllava me, aveva messo a nudo le mie debolezze, le mie fragilità, il mio essere bisognosa.
Ormai non mi guardavo più neanche allo specchio con la figura intera, ed a volte neanche mi interessava. Poi un giorno in 5 liceo a scuola affrontammo il tema della corretta alimentazione e del ruolo del cibo nella vita dell’uomo. Lì mi scattò una molla dentro; ancora oggi non riesco a capire quale insieme di pensieri, sentimenti ed emozioni si risvegliarono in me per portarmi a capire che era arrivato il momento di farsi aiutare: di improvviso la visione delle cose ai miei occhi cambiò, fu come risvegliarsi da un lungo torpore. Mi recai allo sportello di ascolto che c’era a scuola, e feci qualche incontro con la psicologa che c’era. Non decisi subito di intraprendere un percorso, lo feci dopo l’esame di maturità. Mi rivolsi all’ipnosi terapia che devo dire ho trovato molto efficace… ma il percorso è stato lungo e faticoso: ho dovuto io occuparmi della bambina che era stata rifiutata, amarla, apprezzarla e rassicurarla su un fatto: l’amore va ben oltre il cibo, l’amore ama la persona, nella sua unicità, qualsiasi essa sia. Grazie all’ipnosi sono riuscita in primo luogo a controllare la mia fame nervosa, acquisendo in primis validi strumenti per controllarmi e gestirmi; nel medio periodo ho poi lavorato sulla radice dei miei problemi, in ipnosi. E’ stato un rivivere gli episodi traumatici del passato, ma acquisendone padronanza, non essendone più vittima. Questo mi ha permesso di svincolarmene una volta per tutte e di acquisire il giusto distacco, in un faticoso ma gratificante viaggio verso la libertà. Ora so cosa vuol dire mangiare per fame e non per riempire il vuoto! Ad oggi infatti sto meglio, mi sento libera; ho impiegato tempo, pazienza, e volontà, ma ne è valsa la pena.